humanity panzarani

Intervista a Roberto Panzarani sul nuovo libro “Humanity”

Humanity: la conquista sociale dell’impresa” è un libro di particolare attualità. Affronta infatti il tema di come la società si stia trasformando sotto la spinta dell’innovazione tecnologica e sociale. Il tema messo in evidenza in queste pagine è quanto i veloci mutamenti apportati dalla globalizzazione ci portino a confrontarci quotidianamente con un’economia e una società diversa da quella che avevamo imparato a conoscere. Siamo così costretti ad adattarci a questa nuova realtà e, spesso inconsapevolmente, l’adattamento passa attraverso l’attuazione di nuove forme di aggregazione. Abbiamo fatto qualche domanda all’autore del libro, Roberto Panzarani, docente di Innovation management alla Lumsa e membro del Comitato Scientifico del Forum Terzo Settore.

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Questo libro giunge dopo due saggi, pubblicati sempre dalle Edizioni Palinsesto, e lei stesso ha affermato che questo contributo conclude una trilogia dedicata al tema della collaboration. Com’è nata l’idea di questa terza opera?

Humanity nasce dall’intento di completare una riflessione sul modello economico che sta nascendo dalla cosiddetta  crisi  che in realtà riguarda di fatto un cambio totale del  paradigma sociale ed economico. Nei primi due libri Business Collaboration e Sense of Communuty questo era già presente, ma l’evoluzione del paradigma è stata così decisa che oggi il tema della collaborazione diventa fondamentale nella ridefinizione dello stesso modello capitalistico. Tutto questo  sta avendo un grande impatto organizzativo nelle varie imprese e istituzioni e sta riguardando il modo di lavorare che sta diventando completamente diverso , ma rispetto al quale non siamo ancora preparati. Il libro cerca di rispondere a questi temi.

Nella scrittura dei tre saggi è cambiato il suo modo di percepire l’innovazione sociale e quella tecnologica e come queste abbiano influito sulla trasformazione di economia, lavoro e società?

Certamente la percezione è cambiata, ma soprattutto nel senso della velocità del cambiamento drenata dall’evoluzione tecnologica rapidissima e molto diversa rispetto al passato oggi senz’altro più molecolare e non centralizzata come era prima. In sostanza non riusciamo a creare modelli al passo con l’evoluzione che i cambiamenti tecnologici stanno avendo nella nostra società.  Non riusciamo a creare una governance dell’innovazione ed allora la subiamo soprattutto a livello istituzionale.

Di fronte alla mancanza di una “governance dell’innovazione”, che lei imputa anche a un fallimento della politica, come è possibile ridefinire una nuova scala di valori che si adatti alla realtà sociale attuale? E come vengono, in quest’ottica, ridefiniti i confini delle comunità?

Ovviamente è soprattutto la politica, ma quella in senso tradizionale che ha fallito. Il fallimento è comunque prima di tutto culturale. Avremmo avuto bisogno di molta formazione, di una riflessione profonda che ci aiutasse a capire questo momento e a non subirlo, ma tutto questo non c’è, a volte mancano addirittura le competenze minime per prendere le decisioni che sono per lo più sbagliate o ininfluenti.  Riguardo alla comunità anche qui soprattutto nel  nostro ambito istituzionale e sociale  che è quello europeo, il fallimento è totale. L’incapacità di trovare qualsiasi soluzione decente agli innumerevoli problemi che riguardano il funzionamento di base di qualsiasi comunità è devastante. Siamo da questo punto di vista anche un esempio totalmente negativo per il mondo che ovviamente non capisce come una delle regioni più ricche del pianeta non riesca ad esprimere non dico una visione solidale e rispettosa dei suoi cittadini ma neanche una governance responsabile. Ma qui si ridefiniscono i confini della comunità e sono i vari esempi di autorganizzazione dei cittadini che a fronte di una governance inesistente esprimono forme nuove di comunità che risolvono dei problemi (spesso di natura totalmente pratica) che nessuno è ormai in grado di risolvere se non loro stessi.
Il libro porta moltissimi esempi e in questo si stiamo ridefinendo come lei dice una nuova scala di valori.

Nel suo libro cita numerosi esempi positivi di realtà che, anche in mancanza di governance, hanno saputo adattarsi e sfruttare le potenzialità offerte dal continuo divenire offerto dalla globalizzazione. Pensa che la società attuale sia finalmente pronta a comprendere questo mondo e i suoi rapidi tempi di mutazione?

Penso di aver già in parte risposto nella domanda precedente. Quello che voglio aggiungere è che che la società o meglio i cittadini stanno comprendendo i mutamenti ma non rispondono in termini istituzionali, o meglio l’unica risposta istituzionale è il non voto ormai maggioranza dovunque, ma che non significa per forza mancanza di partecipazione ma mancanza di rappresentanza. Qui il discorso sarebbe lungo, mi limito a dire che gli esempi riportati in realtà ci dimostrano una cittadinanza attiva e forse più consapevole dei suoi rappresentanti dei mutamenti in atto.

Quali sono, secondo lei, gli elementi che possono aiutare ad affrontare consapevolmente un processo che trasformi la testa “ben piena”, che il mondo 2.0 ci ha portato ad avere, in una testa “ben fatta”?

La testa ben fatta è data dalla cultura, cioè dalla capacità di leggere quanto  ci sta accadendo. Più cervelli mandiamo via, più facilitiamo l’abbandono scolastico incluso quello universitario, meno capiamo. Questo è quello che sta accadendo nel nostro paese, ma anche qui la rete ci può aiutare e a fronte di quanto sta accadendo più creiamo comunità di apprendimento più avremo l’opportunità di capire. E’ il diritto alla ricerca per tutti  i cittadini di cui parla Appadurai e che cito abbondantemente nel mio libro. A fronte di una globalizzazione della conoscenza dobbiamo avere l’opportunità di conoscere la globalizzazione.

Quale ruolo occupa il Terzo Settore nell’evoluzione dell’innovazione sociale? E come si concilia il suo essere organismo locale con la globalizzazione del contesto in cui l’innovazione prende forma?

Il Terzo Settore dovrebbe svolgere un ruolo fondamentale anche perché la cultura che rappresenta è quella che più si adatta alla costruzione di una comunità del futuro.
Inutile dire che quanto accaduto recentemente  a Roma ed anche in Italia deve farci capire che il Terzo Settore deve anzitutto credere di più in se stesso e nei suoi anticorpi che sono dati dai valori che rappresenta e dalla modalità relazionale e organizzativa che di fatto crea nuove forme di comunità. La  corruzione  prima di  rappresentare un sottosviluppo economico rappresenta un sottosviluppo mentale nel quale è letale farsi coinvolgere.
I vari esempi nazionali ed internazionali riportati nel libro di comunità che si autoroganizzano in realtà rappresentano valori che il Terzo Settore ha sempre promosso e diffuso, il ruolo quindi che avrà in futuro sarà molto importante ed è fondamentale che sia preparato culturalmente a interpretarlo.

Intervista a cura di Cristina Panzironi

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